Le Cave

Per centinaia di anni, l’uomo è riuscito a estrarre dal cuore di Favignana, una pietra davvero straordinaria, la calcarenite arenaria, detta volgarmente “tufo”, utilizzata in particolar modo nell'architettura e nell'edilizia. L’attività estrattiva dei “pirriatura” (uomini esperti dediti alle attività manuali di estrazione del calcarenite) si è talmente perpetuata nel tempo che oggi nella zona orientale dell’isola di Favignana si possono ammirare delle vere e proprie “cattedrali” dalle forme bizzarre e architettoniche.

Le cave dismesse nell'entroterra di Favignana furono utilizzate dagli isolani in modo originale ed intelligente dando vita ai Giardini Ipogei. Grazie al clima mite d'inverno e caldo d'estate, alla protezione di alti pareti e alla esposizione particolarmente soleggiata, gli isolani sono riusciti a sfruttare al meglio un habitat adatto allo sviluppo vegetativo ricreando quindi una “serra naturale”, che permetteva di avere un clima caldo d’inverno e fresco d’estate. All'interno dei giardini Ipogei, potrete infatti ammirare tanti ortaggi ma soprattutto splendidi alberi da frutto come il fico, il mandorlo, il pero, l’arancio e il fico d’india.

L'intera zona nord-orientale di Favignana è fatta di calcarenite arenaria e presenta l'aspetto assolutamente singolare di innumerevoli cave, grotte, sprofondamenti ed erosioni. Non si può datare con precisione l'epoca a cui risale l’apertura delle prime cave di Favignana, poiché sembra che sin da tempi remoti gli uomini vi abbiano scavato grotte da utilizzare come alloggi, mentre in seguito si cominciò ad estrarre la calcarenite per costruire abitazioni. L'uso di abitazioni ipogee è però perdurato tra i meno abbienti e soprattutto tra i cavatori. Le prime cave furono impiantate il più possibile vicino al mare per risparmiare sul trasporto che avveniva appunto via mare.

Negli ultimi due secoli e mezzo questa attività prese un eccezionale sviluppo. La lavorazione era basata sul cottimo: il cavatore prendeva in appalto un terreno, lo preparava a proprie spese liberandolo dal "cappellaccio", cioè dal calcare di pietra durissima superficiale che poteva avere anche uno spessore di 1-2 metri; quindi cominciava il lavoro di estrazione della pietra calcarea in blocchetti (conci) già perfettamente squadrati: cm 25 X 50 oppure 20 x 40 oppure 25 x 25. Egli veniva pagato a seconda dei blocchi consegnati: perciò lavorava dall'alba al tramonto, 12 o 14 ore, portandosi appresso i figli dall'età di 8-10 anni. 

Gli strumenti usati erano la "mannara", una specie di piccozza dalla "penna" o taglio largo, che serviva per tracciare e approfondire nella roccia i contorni del blocchetto (o "cantuna"), lo "zappune" e il "piccune", coi quali si estirpava il blocco. Nessun altro arnese aiutava il cavatore, che lavorava esclusivamente a occhio.

A seconda delle circostanze, una cava poteva essere intagliata a cielo aperto o ad ingrottamento.

Cave ad ingrottamento

Per quanto riguarda le cave ad ingrottamento, esse potevano essere aperte a partire da una parete naturale o da una cava a cielo aperto. Spesso, se si prevedeva di trovare della pietra di buona qualità sotto un vasto e consistente strato roccioso, si faceva il cosiddetto "puzzu lumi", cioè un piccolo scavo a cielo aperto dal quale partire per la lavorazione ad ingrottamento.
Questo piccolo scavo veniva poi utilizzato per piazzarvi sopra un argano in legno ("mangareddru") per tirare su conci. Si procedeva all'ingrottamento direttamente dal livello del suolo oppure rialzandosi da esso mediate ponteggi arrangiati con tavole per l’edilizia o tramite i conci stessi, partendo cioè da un pianerottolo lasciato apposta durante lo scavo di una cava a cielo aperto, al quale si accedeva arrampicandosi lungo la parete sulla quale precedentemente vi erano stati intaccati degli appigli detti "scanneddri".
Dentro le grotte si faceva luce con le candele o con le lampade ad acetilene. Il lavoro dei cavatori era quindi paragonabile a quello dei minatori.

Cave a cielo aperto

Un'altra tipologia di cava, che richiede meno fatica e meno abilità rispetto alla precedente, oltre ad essere anche meno pericolosa, è la cava a cielo aperto. Tutti motivi che portarono all'abbandono delle cave ad ingrottamento e ad una diffusione delle cave a cielo aperto, soprattutto dopo l’avvento della meccanizzazione.
La prima cosa da fare era la squadratura del terreno sul quale operare e l'asportazione del "cappellaccio", lo strato superficiale di terra o di roccia, per portare a nudo la pietra calcarea. Per la squadratura ci si avvaleva di una bacchetta usata come "metro", in modo che sui lati della cava fossero contenuti un numero intero di volte gli spigoli maggiori e minori dei conci.
Tale bacchetta (parpagnu) veniva ribaltata su se stessa, lasciando evidenti segni sul terreno dai quali partire poi per tracciare il perimetro della cava.

Una volta sistemati su uno spiazzo i conci di calcarenite il compito del cavatore terminava, ma era egli stesso che per lo più si occupava del trasporto dallo spiazzo ai punti di carico. Per il trasporto entravano in gioco i carrettieri. Il tipico carro favignanese, tirato generalmente da muli, aveva dimensioni tali da poter assolvere a questo lavoro ed era dotato di fiancate perfettamente rettangolari, senza fregi. Le piste rocciose fuori delle cave sono tutte scritte proprio dai pesanti solchi dei carri che arrancavano in salita, mentre le coste marine mostrano i segni dei molti piccoli attracchi (detti "sacri") per il carico a spalla su barche a vela che ininterrottamente facevano la spola da e per Trapani, Levanzo, Marettimo.
Una volta giunti agli scari, i conci venivano fatti scivolare su scivoli appositamente costruiti. Un cavatore li metteva in cima agli scivoli, alla fine dei quali si trovava un secondo cavatore che li fermava e che li porgeva poi uno alla volta all'equipaggio delle barche. Si trattava di imbarcazioni tipiche, a vela o a motore, abbastanza piatte da potersi avvicinare alla costa. chiamate "Schifazzi".